Che cosa succederebbe se una legge vietasse agli Italiani di cambiare automobile nei prossimi sei anni? La Fiat chiuderebbe.
Ebbene, qualcosa di simile sta accadendo all’editoria scolastica. Con un rischio non solo economico ma anche politico e culturale: il controllo, da parte del presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, della formazione delle giovani generazioni. Un nuovo, per certi versi più grave e inquietante, conflitto di interessi.
Ma andiamo con ordine. Tra le pieghe del cosiddetto “decreto Gelmini” (quello del ritorno al maestro unico e al voto in condotta) - la cui approvazione è prevista al Senato questa mattina, dopo aver già superato il vaglio della Camera - si annida infatti un provvedimento (l’articolo 5) in base al quale i libri adottati a partire dal prossimo anno scolastico dovranno essere confermati alle elementari per cinque anni, alle medie e alle superiori per sei. Ciò significa che molte case editrici rischiano di fallire (se non si può più produrre, si è costretti a licenziare, e poi a chiudere), con una perdita di posti di lavoro stimata nell’ordine di diverse migliaia. Ma se gli operatori del settore sono preoccupati, lo sono anche i docenti, che nello spostarsi da una scuola all’altra (o da una sezione all’altra all’interno dello stesso istituto) rischiano di non poter scegliere gli strumenti del loro lavoro, vedendo così leso il diritto alla libertà di insegnamento.
Qual è la ratio del provvedimento? L’idea nasce dalla volontà di contenere i costi per le famiglie che hanno figli in età scolare: è noto che quella per i libri di testo è una spesa piuttosto onerosa (più ammontare anche a diverse centinaia di euro). “Il problema per le famiglie esiste”, ci dice Giorgio Palumbo, presidente dell’omonima casa editrice, “ma il decreto Gelmini lo affronta in maniera rozza e demagogica. Questa legge, infatti, produce due effetti negativi: non aiuta le famiglie e mette in ginocchio un intero comparto produttivo, soprattutto gli editori scolastici ‘puri’”.
Nessun commento:
Posta un commento