di Giancarlo Cerini
Quando si parla di riforma della scuola è buona norma declinare questo termine nel suo plurale di “riforme”, per sottolineare che i processi di innovazione destinati ad un successo duraturo sono solo quelli frutto di un’indispensabile condivisione tra le parti sociali. Le “buone” riforme debbono rispondere a criteri di qualità e di partecipazione, per essere sentite come impresa comune di un intero paese. Questo principio implica, innanzi tutto, tempi adeguati per la gestazione e la realizzazione delle riforme, una condizione che cozza contro la frettolosità imposta dalla tabella di marcia per l’applicazione della legge 53/2003 (oltre che con il metodo unilaterale e sotterraneo scelto per la elaborazione della proposta culturale: Darwin insegna).
Meglio, allora, richiamarsi ai tempi lunghi delle politiche educative europee, quelli che ci suggerisce il memorandum di Lisbona (2000), quando propone il grande obiettivo di ridurre la dispersione scolastica nei paesi europei, dal 30 % al 10 %, entro il 2010. Per un obiettivo di questo genere vale la pena impegnarsi in molti, per molti anni, con diversità di approcci: ecco la necessità delle riforme “al plurale”. Meglio ancora se il nuovo Parlamento europeo potesse dedicare almeno una volta all’anno un’intera sessione ad una politica europea per la scuola, ad esempio impegnandosi per uno statuto europeo degli insegnanti, per una quota europea (non locale) del curricolo, per un'idea di cittadinanza europea, da favorire attraverso scambi diretti tra i ragazzi e le scuole d’Europa.
Un respiro europeo ci può aiutare a superare le strettoie di un dibattito italiano, troppo appiattito sulle convenienze politiche e parlamentari, di breve respiro, viziate dalle nuove logiche del sistema maggioritario, che tendono ad enfatizzare oltre misura gli schieramenti e il conflitto.
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