martedì 2 dicembre 2008

Il precariato non è un’emergenza, è un’idea di scuola e di società

Sin dai tempi della specializzazione all’insegnamento non mi aveva mai spaventato l’idea che dovessi farmi quei quattro o cinque anni di gavetta, di apprendistato, di anticamera. In fondo, dai racconti dei miei genitori e dei loro amici, un po’ tutti gli insegnanti, da sempre, si erano trovati nella medesima condizione. Sino a qualche tempo fa all’interno del mondo della scuola non si parlava affatto di precariato, di contratti a tempo determinato - per quanto invece ce ne fossero regolarmente - o di assunzioni a rischio: l’attesa per una cattedra, specie per le discipline canoniche, era prassi consueta, formativa, disciplinante, finanche utile perché il futuro docente di ruolo avesse dalla sua un insieme di abilità pressoché consolidate.

Insegno da quattro anni nei licei, soprattutto allo scientifico, ho sgomitato a destra e a sinistra, nonostante il mio punteggio da sissino fosse già alto, per due anni consecutivi ho preso un aereo e me ne sono andato a Barcellona ad insegnare al liceo scientifico italiano. Una possibilità da non perdere secondo alcuni, un colpo di fortuna per molti altri. Eppure la realtà più amara di questo nostro nuovo precariato non risiede tanto nelle destinazioni: quanti, infatti, delle passate generazioni, si sono fatti le ossa nelle scuole del Nord Italia, nelle province di montagna, pur di accumulare punteggio?

Il problema per noi oggi non sta tanto nell’incapacità di totalizzare punti. Tra una supplenzina ed un’altra, tra un master on line ed un corso di specializzazione, entrambi a profumato pagamento, i punti si trovano e si ammucchiano certosinamente per la tanto sospirata entrata in ruolo. La condizione più umiliante per i supplenti nella scuola di oggi sta nella precarietà degli stipendi, nella loro saltuarietà, per quella beffa che s’aggiunge al danno dell’incertezza del lavoro.

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